Intervista contenuta nella tesi di Andrea Burini allievo dell’Accademia di Belle Arti di Urbino.
Dipartimento di Arti Visive.
Scuola di grafica.
Tesi di diploma di nuove tecniche e tecnologiche della pittura.
“IL RAPPORTO TRA I MATERIALI E LA POETICA DA JOSEPH BEUYS ALLA CORRENTE ARTISTICA DELL’ARTE POVERA”.
A.A. 2013/2014

Il mio “viaggio artistico” all’interno della corrente Arte Povera è stato un percorso di studio dagli artisti classici a quelli contemporanei, è anche vero che un forte arricchimento della mia conoscenza sul tema mi è stato dato dall’artista umbro Massimo Diosono.
“L’impermanenza nell’arte contemporanea” è stato il tema con il quale ho conosciuto l’artista presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino. Nel colloquio che Massimo Diosono ha tenuto, sono stati trattati temi di ricerche trasversali, dalla religione alla musica, dall’arte contemporanea alla poesia, dalla filosofia alle arti marziali, all’uso di materiali “poveri” come cenere, cotone, sabbia.
Ho cercato di rintracciarlo, e grazie alla sua disponibilità, ho realizzato questa intervista dove abbiamo spaziato dall’arte, alla sua filosofia nel fare arte, alla vita.

D. Massimo, visto che usi materiali poveri, ti senti un artista che si può collocare all’interno dell’Arte Povera?
E secondo te, i principi che motivarono e motivano questa corrente artistica, come la critica nei confronti della società e quel sentimento di rispetto verso la natura, sono ancora presenti nella nostra contemporaneità o sono cambiati?

R. Non so se il mio lavoro possa essere collocato all’interno dell’Arte Povera, anzi, ti dirò che le categorie in arte le trovo fastidiose. Ritengo sia estremamente limitativo circoscrivere il lavoro di un’artista all’interno di una corrente, per quanto vasta essa sia. Capisco la comodità e la necessità di circoscrivere l’arte (come tanti altri fenomeni tipo la musica, il cinema, la poesia, la letteratura) in categorie, ma non la condivido. Trovo che blocchi il fluire dell’energia, preferisco l’adagio delle Upaniṣad che recita: ”Di morte in morte va colui che vede le cose come separate”.
L’uso dei materiali è sempre legato alla valenza poetica che ogni materiale, povero o no, contiene in sé. C’è una presa di coscienza molto importante delle possibilità espressive della materia che s’incontra, sia essa di origine vegetale, industriale, minerale, animale, etc. Quindi, per quanto mi riguarda, i materiali che uso nel mio lavoro sono un compendio di forza, poesia, tensione, che si svelano e dispiegano la loro forza lentamente, ma inesorabilmente, come ogni processo naturale. Si prendono il loro tempo, la mia fortuna è che il tempo del materiale e il tempo dell’opera coincidono.
Non so se l’Arte Povera sia stato un movimento di critica verso la società, piuttosto credo che tendesse a una messa in discussione dei valori culturali di una società ben radicata e organizzata nelle sue certezze, e l’uso di materiali “poveri” quali ad esempio gli stracci, la cartapesta,etc, portasse l’attenzione del pubblico verso tensioni ed urgenze differenti da quelle che l’arte era abituata ad affrontare fino ad allora, svelando le forze espressive e poetiche insite in ogni materiale, non solo nel colore o nella forma. Gli artisti che lavoravano in quegli anni (e che lavorano) diedero forma a produzioni estremamente ricche e articolate, pur essendo diversissimi tra loro.
Per quello che riguarda il rispetto verso la natura credo che l’uso di materiali naturali nella realizzazione dell’opera, abbia sicuramente portato ad una riscoperta del mondo naturale, ad una sua maggiore conoscenza e valorizzazione e quindi, ad una maggiore interazione con esso. Si veda ad esempio, il lavoro di artisti come Andy Goldsworthy, Nils Udo, Giuliano Mauri, artisti che hanno posto l’uomo nella natura al centro del loro lavoro e della loro poetica.
La contemporaneità per un artista, e credo che valga sia per noi che per quelli che sono venuti prima, e per quelli che verranno dopo, sia quello di “porre in opera” sé stessi. Quanto più ampio sarà il nostro sguardo e la nostra capacità di traduzione, maggiore sarà la forza e la poesia del nostro lavoro, esso dialogherà con il passato e il futuro con una tale naturalezza che il problema del contemporaneo non si porrà neanche più.

D. Oltre dipingere, usi materiali come sabbia, cotone, cenere, materiali più o meno simili tra loro ma con diverse consistenze, ognuno di questi materiali ti trasmette una poetica diversa?

R. Ovviamente non scelgo i materiali a caso, i materiali che uso risuonano nel mio lavoro come nel mio pensiero. Uno dei materiali principali è la cenere, che ha in me una forte risonanza. Contiene tutte le fasi della materia, passato, presente e futuro. E’ in continuo mutamento, lento ma inesorabile.
Quando realizzo i mandala ambientali la uso insieme ad altri elementi naturali, dall’energia ugualmente forte come il sale, il legno, i pigmenti colorati, la curcuma,etc. Terminata l’opera, il mandala viene distrutto e i materiali che lo costituiscono vengono restituiti alla natura attraverso la dispersione in un fiume, i materiali si riuniscono alla natura e sotto altre forme ritornano per poter essere usati nuovamente, in forme sempre uguali ma contemporaneamente diverse.
Trovo questo ritornare dei materiali alla natura e all’uomo che li utilizzerà un’operazione molto poetica, e ricca di tensioni positive. Niente va distrutto per sempre, tutto, prima o poi, ritorna.
L’ovatta è un materiale che dà leggerezza a ciò che leggero non è, acquisisce e annulla la rigidità delle forme che contiene, è un materiale naturale, il suo bianco candido e morbido rappresenta la momentanea incorruttibilità, la purezza dell’idea primigenia, della forma in embrione, non ancora corrotta dall’uomo e dal tempo. E’ un materiale che trasforma la forma.

D. Nelle tue opere è spesso presente il nero e il bianco, questi colori, come se si illuminassero tra loro, che sentimenti esprimono? Vita e morte, corpo e anima, bene e male?
Il tuo grafismo bianco su nero quali significati nascondi?

R. Il nero e il bianco, come nel Tao, sono l’opposizione e la compenetrazione delle polarità che ci definiscono, Notte/Giorno, Positivo/Negativo, Bene/Male,etc. Noi siamo il risultato dell’incontro di queste polarità, non siamo mai solo una cosa o un’altra. La polarità del cromatismo è la polarità del pensiero. Ci ricorda di guardare noi stessi e le cose che facciamo da più punti di vista, la conoscenza è sempre una compenetrazione di opposti, sempre mobili, mai fermi.
Nel mio grafismo, come nella vita, niente è nascosto, a patto di saper guardare. La qualità dello sguardo influenza la forma e la sua risonanza in noi stessi. Nella forma presente c’è tutto, passato, presente e futuro.

D. In una delle tue interviste ho letto che alcune delle tue opere sono caratterizzate da un concetto d’impermanenza, come nel caso dei mandala di cenere, cosa è per te il concetto di impermanenza? Una continua ricerca?

R. L’impermanenza è un fenomeno che ci riguarda tutti, che lo vogliamo o no. A differenza di altri, la mia indagine si traduce e opera anche nel mio lavoro. Nella mia produzione artistica viene indagata a diversi livelli e con materiali diversi. Nella pittura, c’è l’impermanenza del pensiero, che “fotografa” un preciso momento. Nella cenere c’è l’impermanenza del gesto e del materiale. Nella calligrafia c’è l’impermanere fulmineo, risultato di tutte queste cose messe insieme. La cenere e la calligrafia, al contrario della pittura, non sono correggibili, quindi il permanere della forma si sposa perfettamente con l’impermanenza del pensiero.
L’impermanenza è una filosofia prettamente orientale, che mal si sposa con l’occidente. La forma in oriente è fluida, in occidente è statica. Noi conserviamo, ad onta di tutto, e ci riesce difficile cambiare, non è nel nostro DNA. Restiamo attaccati a forme, ideologie, correnti, tradizioni. “La tradizione è l’illusione della perpetuità” (W.Allen). E’ tutto diviso in categorie, ferme e statiche. Il pensiero libero e il cambiamento, energie vitali, hanno difficoltà a circolare. Le categorie e le tradizioni sono comodità talmente radicate che è molto difficile rinunciarvi. Spesso non ce ne rendiamo neanche conto, ma a una visione più attenta, è chiarissimo. Io per primo, cerco di rinunciare a queste abitudini della forma e del pensiero, a queste comodità, radicate e stratificate nel mio io profondo, non sempre ci riesco ma è un esercizio quotidiano che regala non poche soddisfazioni, a cui, tuttavia, non bisogna rimanere attaccati.
Nella mia esperienza ho notato che l’arte, per la maggior parte delle persone, è l’arte antica. E’ antica proprio la “forma mentis” che mal tollera il contemporaneo, ovviamente qualche eccezione c’è, ma, essenzialmente, l’arte “vera” è l’arte antica, oppure l’arte figurativa. Molte persone hanno difficoltà a interagire con quello che non riconoscono, considerano l’arte e il pensiero contemporaneo, poco più di un divertimento, se non una truffa. Il contemporaneo è spesso frainteso e mal tollerato e questo allarga ancora di più la forbice tra l’artista e il pubblico, desertificando le mostre di arte contemporanea, a meno che non sia qualche evento irrinunciabile con artisti ormai sdoganati, ma secondo me, non compresi a fondo. Spesso, parlando di Fontana, Manzoni, De Dominicis, Merz, etc. si fa più riferimento al prezzo di mercato che alla poetica, ai più, sconosciuta.
Io vivo in Umbria e un esempio emblematico è Burri, accettato perché non più ignorabile, ma incompreso e spesso schernito. Se vai agli essiccatoi del tabacco o a Palazzo Albizzini non di rado li troverai semivuoti. Non è che la Galleria Nazionale dell’Umbria sia strapiena, ma non si respira la stessa ostilità. Le nostre bellezze e i nostri borghi spesso sono un sudario che tutto isola e avvolge, un gorgo che sprofonda in sé stesso. L’arte contemporanea è in continua evoluzione, non è per gente pigra, spesso richiede conoscenze e cultura interdisciplinare, richiede impegno e abnegazione, sia dall’artista che dal pubblico. Da quella che è la mia esperienza, è molto meglio restare su ciò che si conosce ed è acclarato da secoli di storia, perché cambiare? Mi permetto di fare queste osservazioni sulla base della mia esperienza di lavoro in molte mostre, sia di arte antica che contemporanea e spesso, parlando con i visitatori emergono le problematiche di cui ho parlato in precedenza. E’la desertificazione che avanza, inesorabile. Sicuramente, poiché tutto è soggetto a cambiamento, anche questo stato di cose cambierà, vedremo se in meglio oppure in peggio.

D. Usi elementi come cenere, sabbia e cotone materiali in se fragili e gli dai la forma attraverso il mandala, in sé ricco di simbologie e significati, perché dai questa forza ad elementi così deboli?

R. Il cotone nel mandala non è presente (almeno fino adesso), e i materiali che uso non sono né forti né deboli in sé, bisogna vedere l’uso che se ne fa. Ogni materiale ha una poetica e una tensione in sé, dobbiamo conoscerlo per usarlo al meglio. Essere pronti a ricevere la sua energia, trasformarla e indirizzarla al meglio delle nostre possibilità. La simbologia e la forza dei materiali naturali è contenuta nella natura, che sa sempre cosa fare. Quando piegarsi, come adattarsi,e, soprattutto come essere in sintonia con il tempo e l’uomo, fornendo grandi insegnamenti a chi li sa cogliere. Anche Lao Tze nel VI secolo a.c. ne aveva colto questo aspetto e infatti dice:

“La debolezza è sublime, la forza spregevole.
Quando un uomo nasce, è debole ed elastico.
Quando muore è forte e rigido.
Quando un albero cresce, è flessibile e tenero;
quando diviene secco e duro, esso muore.
La durezza e la forza sono le compagne della morte.
La flessibilità e la debolezza esprimono la freschezza della vita.
Perciò chi è indurito non vincerà.”

Risulta chiaro che essere in armonia con sé stessi e con la natura è la condizione che permette di usare al meglio l’energia e la forza che questi materiali possiedono, senza dimenticarne ovviamente, la poesia di cui sono intrisi e che li contraddistingue dal materiale seriale e tecnologico. Anche i colori preparati con pigmenti naturali sono splendidi e resistentissimi, ne abbiamo innumerevoli testimonianze. Un mandala realizzato con elementi naturali contiene la forza della natura rappresentata dai materiali, il macrocosmo celeste, che attraverso l’opera dell’uomo realizza il microcosmo umano, gettando un ideale ponte tra noi e la natura, l’energia naturale e quella umana dialogano attraverso forme, archetipi e colori realizzando un mandala, veicolo di conoscenza ed ottimizzazione dell’energia. Si definisce il proprio sé attraverso la natura e la forma.

D. Quando realizzi le tue opere con elementi poveri o quando crei i tuoi mandala, è difficile concretizzare questa tua energia interiore in idee, forme o colori?
Avverti difficoltà ad esprimere le sensazioni o sentimenti che dentro te stesso vuoi esprimere?

R. Difficoltà assolutamente no, anzi. La sfida è quella di riuscire a rinnovare tensione, poesia e energia. Le forme e i materiali sono un il tramite attraverso il quale si manifesta la nostra energia interiore, essi confluiscono nell’opera che, se riuscita, continuerà a vivere nel tempo arricchendosi sempre di nuovi significati. Apparterrà al mondo, sarà sempre uguale ma sempre diversa. Sarà un flusso di energia e idee ininterrotto. Se vogliamo, la difficoltà è quella di creare un opera che sia un veicolo che appartenga contemporaneamente al passato, al presente e al futuro. Che si muova con naturalezza in queste tre dimensioni. L’uomo è parte del tutto, quando è in armonia con sé stesso e l’universo, l’opera “avviene” naturalmente, sboccia come un fiore, senza difficoltà. Una volta nel mondo, l’opera troverà il suo pubblico, attraverso lo sguardo sarà sempre nuova e aprirà nuove vie, nuovi canali di comunicazione, pronti a essere percorsi.

D. Nella tua ricerca spirituale, il praticare arti marziali e l’accettazione del dolore fisico ti è stato d’aiuto per arrivare ad una coscienza più profonda di te stesso, la filosofia di questi arti ti ha aiutato a tradurre i tuoi sentimenti in forme?

R. La filosofia Zen e le arti marziali sono insieme da sempre, sono entrambe veicolo di conoscenza e miglioramento del sé, mente e corpo non sono entità distinte. L’energia della pratica nel “dojo” non è diversa da quella che scorre nell’atto creativo, imparare a concentrarsi escludendo e contemporaneamente includendo tutto quello che succede nel momento presente, porta ad una visione del momento presente ad un altissimo grado di completezza. Riuscire in questa pratica comporta che tutto quello che è contenuto nel momento presente non sfugga, si coglie il presente come un flusso che va dal passato al futuro, non come un momento statico. Nella pratica dei “kata” o nel “kumite” è molto chiaro, bisogna essere interamente in quello che si fa, mente e corpo devono essere un tutt’uno. Dobbiamo imparare la forma e dimenticarla, quando serve, emergerà con efficacia e naturalezza. Nella filosofia Zen questo stato si definisce “inappreso”, ossia non pensare ad una forma o tecnica, finchè non è il momento di utilizzarla, e anche quando si utilizza non bisogna pensarci! Tutta la mia attività artistica, come del resto la vita quotidiana, risente della pratica delle arti marziali, nel mio caso del Karate Shotokan. Per me l’arte è conoscenza, soprattutto di sé stessi, va da sé che la pratica delle arti marziali porta un grande contributo. Nello “Shodo” (arte della calligrafia) i progressi sono valutati in “dan” come nelle arti marziali tradizionali, c’è un forte legame con l’arte, non è un caso che si chiamino arti marziali. Ovviamente non tutti la vedono in questo modo, anzi. Spesso nella pratica delle arti marziali di queste cose non vi è traccia, è importante avere un buon maestro. Il contributo che ricevo dalla pratica è significativo, è un processo che è molto vicino alla creazione dell’opera, come quando si porta una tecnica che è frutto di ore, mesi, anni di pratica e viene bene senza pensarci, così spesso nasce l’opera, ci si presenta come un’intuizione inaspettata, ma che invece, è frutto di anni di lavoro, svolti in silenzio, nelle profondità dell’essere. Il dolore fisico in sé non è poi un gran problema, passa. Diverso è il dolore che la vita elargisce a piene mani a tutti quanti, lì è diverso, e la capacità di affrontarlo avviene con diversi strumenti, ognuno usa quelli a lui più congeniali. Per quanto mi riguarda comprendere a fondo che tutto è transitorio e in trasformazione, lo ritengo uno degli insegnamenti più preziosi contro il dolore e l’infelicità, che ci saranno sempre, ma passano. Non si tratta di accettare passivamente tutto quello che succede, piuttosto capire che tutto è collegato, che niente succede per caso, e riuscire a trarre gli insegnamenti profondi che si celano negli avvenimenti della vita, belli e brutti. Trarre tutta la forza e l’energia del vivere e continuare il nostro percorso, a schiena dritta.

“Forte scroscio di pioggia. Mettiti contro la pioggia, lasciati compenetrare di ferrei getti, scivola nell’acqua che ti vuol trascinar via, ma resta fermo e attendi, ritto, il sole che irraggia improvviso e infinito.” (F.Kafka).