Perugia, agosto 2012

Zanshin: spirito del gesto e impermanenza dell’essere

Il nuovo millennio si è aperto nel segno del “post”; abbiamo superato e sorpassato tutto: il modernismo, l’avanguardia, l’umano, e non resta che guardare indietro. La storia ha intrapreso un cammino di rilettura sistematica del passato riesumando e reinterpretando mode trascorse. Proliferano i mercatini dell’antiquariato e imperversa la tanto blasonata moda vintage. Nel cinema è un continuo remake e i registi, sempre più spesso, operano privi di vera fantasia, affidandosi quasi esclusivamente all’artificio dell’effetto speciale o al “giochetto” del 3D. I veri creativi oggi sono i ragazzetti che inventano App e social network, perché lì si che si gioca la partita vera della comunicazione contemporanea.

In questa corsa verso il traguardo del personale arricchimento, a scapito di una vera creatività contemporanea, l’arte è sempre più intesa come semplice merce di scambio e spesso validi artisti, ma lontani da tale mondo, restano a guardare magnati dell’industria come Saatchi o Pinault – i nuovi Guggenheim – proiettare nelle vette delle classifiche mondiali i propri “prodigi”. Intanto a Basilea gli organizzatori della più importante fiera del pianeta, veri speculatori dell’arte, sono attenti alle opere d’arte esposte nello Schaulager, deposito privato di una piccola, quanto ricca, cerchia di conoscitori aperto solo su invito, che “suggerisce” verso quale direzione il mercato deve orientarsi. Ne parla Jan Claire nel suo recente libro L’inverno della cultura, sottolineando come la gallerie più importanti del mondo sono ormai legate a questo meccanismo speculativo che, facendo capo a pochissimi magnati, decide le sorti dell’arte internazionale non secondo parametri di merito comunicativi, ma principalmente di opportunismo economico. Sembrerebbe dunque non esserci spazio oggi per un’arte come quella di Massimo Diosono, che si interroga sui temi dell’impermanenza facendo proprie le filosofie orientali, poiché il mercato artistico è come la Tv, vuole “roba” leggera, che faccia scalpore, possibilmente nemmeno troppo intelligente. In effetti mai quanto oggi sembra che questa virtù faccia paura, visto che la classe dirigente, a tutti i livelli, trama costantemente a scapito del popolo la propria sete di potere e denaro nonostante l’acclarata incompetenza. È sotto gli occhi di tutti, infatti, che la politica sia divenuta ormai il luogo degli inetti, un approdo per incapaci che, alle prese con la vita reale, cioè produttiva, sarebbero dei falliti, ma negli uffici delle istituzioni possono tranquillamente sentirsi importanti legiferando sul nulla e facendo solo il proprio comodo. Così sembra di essere nuovamente finiti nel Terzo secolo romano, quello della caduta, fatto di intrighi e di giochi al Colosseo, oggi sostituiti dal calcio e dai programmi sciocchi di “Canale 5” o da “Tg1” e “Tg2” che, in barba ai veri problemi, raccontano le vacanze felici dei principi inglesi o qualsiasi altra possibile frivolezza, tutto purché il popolo non pensi.

Il “post” dunque, ormai in ogni attività, ha raggiunto anche il principio del “valore” e possiamo affermare con certezza che siamo entrati nell’epoca del “post-valore-umano”, cioè un’epoca dove le qualità apprezzate non sono più quelle del merito attitudinale, ma semplicemente del profitto. Quando una società giunge a tale miseria intellettuale e culturale, tuttavia, allora inizia la sua decadenza. L’attuale crisi economica è principalmente crisi di valori, innescata dall’unico interesse dei potenti: la speculazione. Speculare significa rischiare, azzardare, fare previsioni rischiando parimenti di guadagnare o perdere, in base alla bontà dell’intuizione. Velocemente, tuttavia, ciò ha preso strade alternative e questo termine è divenuto sinonimo di sfruttamento di personali privilegi a scapito del popolo operoso, ma la ricchezza speculativa prodotta negli scorsi decenni è oggi giunta al capolinea e gli stati si accorgono – o lo sapevano – di aver fondato intere cattedrali nel deserto. Per cui, per quella legge di natura secondo cui ciò che sale deve inevitabilmente scendere, e viceversa, giunti nell’epoca del “post-valore-umano”, sarà proprio questo “valore umano” che tornerà a dettare legge. Gli incompetenti della politica (che oggi sono tutti e a tutti livelli, locale e nazionale) faranno crollare il paese ed esso tornerà, in tempi non brevi certamente, a risalire grazie alle capacità di coloro che oggi sono collocati ai margini.

Così andrà quindi letta l’opera di Diosono, come l’estremo tentativo di dire al mondo che il vero senso delle cose sta all’interno di esse, nell’apparente semplicità di un gesto, o nella complessità del Mandala; o che la cenere è residuo e scarto solo se così la si vuol vedere, mentre la materia di cui siamo composti è, prima di tutto, anima e intelligenza creatrice che ci distingue dagli animali.

Zanshin, titolo della mostra, significa “spirito del gesto”, liberazione del Sé attraverso la forma, che si esplica nell’opera di Diosono attraverso un rigoroso percorso estetico: dai Mandala alle opere con la cenere, fino agli Ensō, seguendo il principio di “impermanenza” che guida il mutare dei corpi e del pensiero. Tutto è destinato a scomparire nel processo di trasformazione delle cose e se è vero che “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” (Antoine-Laurent de Lavoisier) allora potremmo anche giungere a sostenere che le differenze non esistono. Noi uomini siamo talmente impegnati a mettere in “mostra” noi stessi, da dimenticare che tutto ciò scomparirà comunque, per cui quello che realmente conta è l’essenza del lavoro e non quanto esso sarà in grado di darci lustro, tanto nel presente, quanto nel futuro.

Il Mandala, che in sanscrito significa cerchio, ha il significato di “contenitore dell’essenza” e nell’opera di Diosono rappresenta lo stadio della “gestualità meditata”, esplicata nella complessa simbologia delle forme geometriche da cui il disegno è composto, e dove il centro, Bindu, rappresenta il punto che non ha dimensione, dal quale tutto va e al quale tutto torna, e il vuoto da cui tutte le cose hanno origine. Elemento trasformatore quest’ultimo conduce nel cuore del messaggio palesato dall’artista, cioè la conoscenza del Sé contrapposta all’“esercizio” dell’apparire che affanna la collettività viziandone giudizi e comportamenti. Una conoscenza – consapevole della propria interiorità – che si apre all’altro e alla scoperta dell’altro nella condivisione del pensiero collettivo: impermanente, diremmo, perché libera di vagare e non radicata entro schemi precostituiti. L’inconscio è dunque il “luogo” cui Diosono attinge e il Mandala oggi ne rappresenta l’anima, espressa attraverso le sempre diverse forme geometriche, metafora del labirinto che si nasconde in noi e nel quale ci addentriamo quando s’intraprende la strada dell’interiorità. Pertanto egli trascende l’opera, ormai interiorizzata, liberandosi della fase progettuale e tracciando in automatismo le forme – forme dello spirito – con una “gestualità meditata”, ma spontanea, che ne comunica immediatamente il sentimento.

Zanshin è quindi un percorso che vuole aprire alla riflessione sul Sé, ma con l’intento, si diceva, di aprirsi al dialogo e alla conoscenza dell’altro. Il secondo stadio di tale “viaggio”, quindi, è rappresentato dalle opere realizzate con la cenere, dove il concetto espresso è quello di “gestualità spontanea”, attinente al principio della trasmutazione. Dal gesto meditato a quello spontaneo, tuttavia, sembrerebbe esserci un vero e proprio abisso, ma quella riflessione sul Sé, che ha dato l’avvio a tale esperienza artistica, ci porta inevitabilmente al problema della categorie temporali che Diosono affronta attraverso il ricorso alla cenere, elemento simbolo di trasmutazione, la quale stesura è effettuata proprio con gesto spontaneo del braccio. Così l’artista, attraverso l’utilizzo di tale elemento, annulla il concetto statico di tempo: la cenere è materia residuo di combustione, quindi memoria, ma può agire nel presente come fertilizzante operando in tal modo anche in favore del futuro. È pertanto un potente elemento simbolico di passaggio e trasmutazione che richiama i processi di distruzione e formazione della materia, come avviene nel Cosmo, ma è anche metafora di trasformazione che, se declinata all’attività umana, suggerisce all’uomo di non preoccuparsi troppo per ciò che possiede in terra. Un messaggio tanto semplice quanto ricco di valore poiché invita la comunità ad aprirsi verso nuove culture, a “riciclarsi” come cenere abbracciando inattese esperienze, nuove conoscenze e idee, un simbolico atteggiamento d’apertura e di dialogo, una mano tesa verso gli altri, un abbattimento dei muri e delle diffidenze.

A conclusione del percorso tracciato da Zanshin, quindi, Diosono presenta una serie di opere dove il gesto si semplifica nel tratto sicuro degli Ensō, veri e propri segni tracciati circolarmente sulla carta, e costituiti da un unico, irripetibile, “gesto fulmineo”. Procedendo in senso orario l’artista lascia sulla superficie pittorica la traccia della propria meditazione; un cerchio che non viene mai eseguito nella sua completezza, restando così sempre aperto, e tale apertura equivale al principio di non finitezza quale monito alle infinite, successive, possibilità del lavoro. Il richiamo è al giardino Zen che normalmente non viene concluso perché il lavoro non si consideri mai finito, ma perennemente in divenire e in trasformazione, aperto quindi a sempre nuove possibilità. Va detto che il gesto attraverso il quale Diosono realizza gli Ensō va sempre nella stessa direzione, ma a lavoro finito tale opera potrà essere letta in entrambe le direzioni di svolgimento, ciò annulla l’idea di una chiave di lettura unica per il lavoro, ma, metaforicamente parlando, anche per il resto delle nostre attività: come dire che niente va visto solo da un’ottica, ma tutto si debba guardare da ogni lato, abbattendo ogni pregiudizio. E ciò riconduce nuovamente al Sé, al Mandala e alla metafora della cenere, sottolineando ancora di più la volgarità dell’attuale società, individualista e nella quale ognuno si preoccupa essenzialmente del proprio tornaconto, illudendosi che la realtà sia relegata solo al proprio orticello. È tale modo di pensare che ciclicamente mette in crisi le grandi popolazioni e, non facendo eccezione la nostra, c’è da pensare che tra qualche decennio si tornerà a guardare ad artisti come Diosono, vedendo in essi la luce della preveggenza, ma non dovremo dimenticare che mentre essi “vedevano”, noi eravamo ciechi semplicemente perché annichiliti dalla luce del nostro stesso egoismo.